L’utilizzo della diagnosi in un’ottica complessa. La prospettiva sistemica

Una delle malattie più diffuse è la diagnosi

Karl Kraus, 1912

 

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Il tema della diagnosi dei disturbi psichici, nell’ultimo decennio, ha ripreso un posto centrale tra le diverse scuole di psicoterapia. La mia posizione critica rispetto alla scarsa utilità terapeutica della diagnosi medico-nosografica è già stata esposta in un post precedente (http://spazioinascolto.altervista.org/dottore-che-cosa-ho-i-rischi-della-diagnosi/); qui cercherò di occuparmi di alcune posizioni cliniche che potremmo definire “alternative” al classico “etichettamento sintomatologico” e che pongono al centro della definizione psicopatologica l’aspetto relazionale/contestuale. Il tentativo che mi propongo, in questo e nei prossimi post, è quello di creare un filo rosso tra i diversi approcci terapeutici, sostanziato dal desiderio condiviso da differenti “scuole di psicoterapia” di inquadrare il disagio psichico in un’ottica complessa. Inizierò dalla psicoterapia sistemica, sottolineando i 4 parametri di valutazione essenziali che il clinico utilizza per ottenere una più chiara comprensione della situazione di difficoltà su cui si trova ad intervenire.

  1. Quali sono i modelli di interazione impiegati? Questo livello fa riferimento alle modalità con cui avvengono gli scambi comunicativi della persona che si rivolge a noi con chi condivide il suo contesto relazionale significativo (famiglia, amici, luogo di lavoro, ecc.). I ruoli giocati nella relazione sono fluidi, intercambiabili, o rigidi. C’è una struttura di relazione fondata sulla dominanza/sottomissione (rapporto complementare) oppure di conflitto per il “potere” (rapporto simmetrico).
  2. Quale è la storia del “sintomo”? Aspetto fondamentale per il clinico non è solo capire che costellazione sintomatologica ha di fronte (per poi magari utilizzare la tecnica adeguata…) ma comprendere come la patologia si sia strutturata nel tempo, cristallizzandosi nella vita della persona. Cosa è accaduto nel periodo in cui il sintomo si è manifestato? Come ha gestito, sia l’individuo che le persone intorno a lui, il disturbo? Quali cambiamenti nei rapporti interpersonali ha prodotto?
  3. Quale è il momento del ciclo vitale? Con questa domanda si fa riferimento al particolare momento evolutivo attraversato dal consultante e dalla sua famiglia/coppia, nel momento in cui si è verificato il sintomo. Si tratta del tempo dello “svincolo”, quando il soggetto entra nell’adultità dovendosi costruire un futuro lontano dal nucleo familiare, nella fase di costruzione della coppia, nel momento della nascita di un figlio. E’ importante riuscire a cogliere come il sintomo si costruisce intersecandosi con lo specifico periodo vitale percorso dal soggetto.
  4. Quale è l’assunto fondamentale mediante cui si struttura la vita della persona? Ogni individuo acquisisce nel corso della sua storia personale una filosofia di costruzione della realtà, che inquadri se stesso e attribuisca senso al mondo che lo circonda. E’ fondamentale per lo psicologo capire quale è la componente attraverso cui l’individuo racconta se stesso e la sua esperienza. Chi ha pratica con la psicoterapia avrà avuto a che fare con persone che narrano la maggior parte della loro esistenza secondo alcuni dei seguenti assunti: “Devo essere perfetto”, “devo essere amato da tutti e farmi accettare”, “Non mi posso fidare della gente”, “E’ tutta colpa mia”, ecc.

Come possiamo vedere ciascuno dei punti corrisponde ad una domanda. La persona viene dunque interrogata e, ciò che è più importante, questo viene fatto nella sua soggettività e tenendo in primaria considerazione il contesto relazionale. Alla fine del percorso quello che rimane non è un “dato”, né una categoria, ma un’ipotesi, che non va interpretata all’interno di un’accezione sperimentale, dunque, semplicemente “vera o falsa”. Infatti l’ipotesi che emerge dall’incontro delle risposte ai quesiti è più o meno “utile”, rispetto alla sua capacità di produrre un cambiamento. Vero e proprio obiettivo della diagnosi al servizio della terapia. Davanti ad un sistema che, metaforicamente, ha nella rigidità delle sue certezze il fulcro della sua patologia, è sterile che il clinico contrapponga a queste le proprie certezze, come accade con le categorie diagnostiche tradizionali. E’ invece più utile che, attraverso la formulazione di ipotesi che sono già “interventi”, il terapeuta attivi nel sistema la possibilità di rimettere in discussione quelle certezze.