“Dottore che cosa ho?” I rischi della diagnosi

Ci si forma nelle relazioni, ci si ammala nelle relazioni, ci si cura con le relazioni”

Franco Di Maria, 2010 

 

diagnosi

Sul tema della diagnosi vi sono diverse posizioni ideologiche, che variano da chi sostiene che la diagnosi non esiste, a chi la considera solo un ingiusto sistema di etichettamento, a chi pensa che la diagnosi sia una fase essenziale dell’intervento psicologico/psicoterapeutico. E’ bene precisare che in questa sede quando utilizziamo il termine “diagnosi” facciamo riferimento esclusivo alla dimensione nosografico-descrittiva della stessa. Quindi alla componente diagnostica che la psicologia condivide con la psichiatria e che si fonda sulla descrizione dei sintomi che “creano” il disturbo.

Molti dei sostenitori dell’utilità della diagnosi sottolineano che senza di essa sarebbe impossibile accedere ai trattamenti del sistema sanitario, che l’attività di ricerca sull’efficacia degli interventi sarebbe ostacolata, che altrimenti risulterebbe complessa la comunicazione tra professionisti diversi. Alcuni ritengono anche che il bisogno di comprensione del paziente, legato alla necessità di dare un senso al proprio disagio, nel momento in cui viene soddisfatto attraverso l’uso della diagnosi (“Lei ha questo problema…”) può rappresentare un sollievo.

Dal nostro punto di vista, i vantaggi sopraelencati sono effimeri e di gran lunga secondari, rispetto ai rischi legati ad un sistema di classificazione psicologico. Possiamo identificare due ordini di problematiche connesse alla diagnosi psichiatrica, uno legato ai limiti dell’attuale sistema classificatorio (DSM IV-TR, ICD 10), un altro connesso alla logica che l’impiego della classificazione innesca.

Relativamente al primo ordine di rischi intanto possiamo affermare che il DSM da luogo ad un’eccessiva sovrapposizione di patologie nella stessa persona, visto che in media il numero di disturbi riscontrati nel medesimo paziente è assai più elevato di quanto è atteso sulla base del calcolo della probabilità. Questo solleva forti dubbi sulla capacità del DSM di saper distinguere tra loro disturbi differenti.

Inoltre va constato che, a causa della moltitudine dei sintomi ascritti alla stessa patologia, persone con la stessa diagnosi possono presentare quadri sintomatologici profondamente diversi. Questo ci consente di affermare che vi è un’eccessiva eterogeneità dello strumento valutativo, soprattutto per quanto riguarda i “disturbi di personalità”.

Va poi considerato che molti disturbi psicopatologici descritti nei manuali diagnostici sono semplicemente bidimensionali. O hai la patologia o non ce l’hai. Ciò costituisce una forzatura evidente poiché elimina ogni possibile sfumatura che, chi ha dimestichezza con l’ambito clinico, ha certamente incontrato.

Infine è evidente che alcuni dei problemi clinici riportati dai pazienti, fonte di notevole sofferenza ed estremamente invalidanti, sono assolutamente inclassificabili all’interno dei sistemi nosografici attuali. Pensiamo ad una moglie di mezza età che ha appena scoperto che il marito è omosessuale, ad una giovane donna che si trova a ripetere da anni lo stesso copione nelle storie affettive, ad una coppia che ha perso un figlio, al malessere provocato dalla precarietà del lavoro. Non tutte queste persone possono rientrare nell’Asse I o II del DSM, pur presentando alcuni sintomi.

 

La presenza di una diagnosi che si riduce all’identificazione di un disturbo, come accennato in precedenza, produce un secondo ordine di problemi che si collocano ad un livello “meta”, rispetto all’efficacia del sistema di classificazione stesso. L’identificare un disturbo che devia dalla normalità innesca un tipo di azione nello psicologo che ha a che fare con il riportare il paziente alla condizione precedente il problema. Si parla cioè di correzione del deficit. Ciò che si persegue è la riconduzione ad uno stato di normalità, la recessione del sintomo, la modificazione del comportamento verso livelli più adeguati. Hai l’ansia? Dobbiamo toglierla. Hai paura di stare con gli altri? Dobbiamo potenziare le capacità relazionali. E così via. L’identificare il disturbo in questi termini ci impedisce di effettuare riflessioni sul “senso” del problema, costringendoci a vedere il sintomo come la difficoltà del paziente e non come conseguenza di un contesto che è cambiato. In questo modo la riflessione sulle relazioni all’interno delle quali i sintomi si sviluppano diviene arduo, quasi inutile.

 

Purtroppo questa competenza la psicologia, sempre più medicalizzata, sembra averla dimenticata, costringendoci a giocare la partita sul campo della psichiatria, che a mio avviso ha regole del gioco che non possono essere le nostre. Un farmaco agisce sul disturbo. Deve farlo anche l’agire psicologico?

Una risposta a ““Dottore che cosa ho?” I rischi della diagnosi”

  1. Sono totalmente d’accordo ed apprezzo la chiarezza dell’esposizione.
    Ritengo, con te, che la diagnosi così intesa sia iatrogena e non permetta di focalizzare l’attenzione sulle sole aree che permetterebbero il cambiamento , quelle “libere dal conflitto”.
    Grazie di aver riacceso i riflettori su questo tema
    Paola Mamone

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