Il rapporto con le emozioni negli attacchi di panico

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale“, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione della propria identità. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un evento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa.

È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. È allora un tentativo di integrazione quello che il paziente fa, quando cerca di ricomporre le tessere “insensate”, trattandole come fossero “sintomi” di qualche malattia biologica.

Non è un caso che uno dei primi luoghi che “accoglie” le persone con un disturbo di panico sia il pronto soccorso di un ospedale ed il primo professionista a cui si rivolgono sia il medico, mettendosi alla ricerca “del pezzo biologico mal funzionante”. Si tratta dell’attivazione di una intelligenza. Che però sbaglia. L’errore sta nel fatto che (almeno “localmente”, in quella specifica esperienza) non è disponibile una intelligenza emotiva, ma soltanto un pensiero analitico, che si mette a osservare “dall’esterno”, alla lontana, e che quindi si muove come fosse sordo e cieco verso le emozioni in atto, perché, in questi casi, si attiva in modo disgiunto dallo stesso mondo delle emozioni che gli si presenta.

L’emozione è stata, sì, percepita nelle sue singole componenti, ma non è stata riconosciuta nel suo insieme. Percepita come fosse de-strutturata nelle sue componenti sensoriali, che sono rimaste tra di loro separate.

In quelle condizioni, la cosa più ragionevole che il soggetto, nella nostra cultura, può fare per strutturare una “figura” che si stagli sensata dallo “sfondo” indifferenziato è pensare di essere ammalato di una sconosciuta malattia fulminante. E si allarma, ovviamente. Con i dati al momento a sua disposizione, sta funzionando bene. “Fanno presto a dirmi: ‘non è niente’. Vorrei vederli io, cosa farebbero loro al mio posto!”, protestano i pazienti contro le pseudorassicurazioni profuse a piene mani da parenti, amici e, purtroppo, spesso anche dai terapeuti.

Non trovando un nesso riconoscibile, il paziente si terrorizza, e, nella prospettiva di una imminente catastrofe, pensa (più precisamente: “sente”) come unica risorsa disponibile nell’immediato la fuga dalla situazione di panico, e come unica risorsa disponibile per il futuro la prevenzione, attraverso l’evitamento di ogni situazione potenzialmente ansiogena. Per questa strada, progressivamente, il paziente tende a proteggersi e ad evitare ogni situazione vitale, in quanto attivatrice di emozioni, col risultato di impoverire sempre di più la propria esistenza.

 

Come si sviluppa l’analfabetismo emozionale

L'”analfabetismo emozionale” viene attivamente strutturato di solito come conseguenza diretta di una specifica negazione verso certe emozioni, o verso l’intera vita emotiva, da parte della famiglia entro cui l’identità del bambino va strutturandosi.

Se, per esempio, il contesto familiare, in modo sistematico e monotono, non risuona a specifiche emozioni del bambino, egli tenderà a strutturare attivamente e inconsapevolmente una specie di “scissione“, di “macchia nera“, nelle proprie percezioni emotive. Tenderà, cioè, a vivere tutte le emozioni che le sue esperienze comportano, anche le emozioni negate, ma, progressivamente, perderà la capacità di riconoscerle.

Un altro modo in cui un bambino può attivamente strutturare un “analfabetismo emozionale” è, per esempio, quello conseguente al ritrovarsi sistematicamente abbandonato per ore e ore davanti alla scatola vuota della televisione, che omogeneizza le esperienze, o le svuota sul nascere con le sue piatte finzioni di interattività (tipo: “Ci rivediamo domani!“; “Allegria!“; o suggerendo artificialmente buonumore con le risate fuori campo).

Una volta strutturato, l’ “analfabetismo emozionale” creerà un fertile terreno intrapsichico e relazionale per l’instaurarsi del disturbo di attacchi di panico. Alla prima occasione di vita un po’ più rilevante per il soggetto, tutto è pronto per un acuto misconoscimento di una qualche emozione.

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