Le nuove dipendenze

Quando parliamo di dipendenze ci viene in mente soprattutto la tossicodipendenza, quindi l’uso di sostanze, da quelle legali (alcool, nicotina, caffé, farmaci) a quelle illegali (cannabinoidi, anfetamine, cocaina, ecc.). All’interno di questa categoria possiamo fare delle distinzioni sulla base della frequenza di consumo: passiamo dall’uso saltuario, all’abuso, alla dipendenza. In particolare ciò che caratterizza quest’ultima è la presenza di sintomi fisici che vanno legati alla tolleranza (il bisogno di dosi più elevate per ottenere l’effetto iniziale) ma soprattutto all’astinenza (una serie di sintomi, che variano da sostanza a sostanza, e che si presenta in relazione alla sospensione di assunzione).

Il sentire comune spesso attribuisce la cuasa della dipendenza ad una “fibra temperamentale debole” della persona (modello morale) o agli effetti nefasti della prima assunzione, che crea nuovo bisogno facendo perdere il controllo al malcapitato individuo (modello pseudo-medico). Il colpevole, dunque, è la volontà o il corpo, secondo alcuni addirittura “predisposto” al consumo (vedi alcolisti anonimi).

In ambito psicologico si tende ad utilizzare una visione più complessa, legata alla presenza di fattori mentali e relazionali che possono innescare una “carriera di consumo”. Sempre più spesso si sente parlare di doppia diagnosi, ovvero la concomitanza di disturbi psicologici, come disturbi d’ansia o depressione, con il consumo di sostanze. La sostanza rappresenterebbe una sorta di “autocura” che l’individuo utilizza per far fronte al disagio psichico. Si ritiene in ogni caso che le variabili in gioco nel consumo e nella dipendenza siano molteplici (variabili come età, contesto socioculturale, sistema relazionale in cui il soggetto è inserito, condizioni economiche, livello di disagio psichico, ecc.) e che sia decisamente semplicistico attribuire un comportamento così complesso come la dipendenza, alla scarsa volontà o ad un corpo “schiavo” degli effetti della sostanza.

In particolare il concetto di “nuove dipendenze” ha messo in crisi il modello medico. Infatti oggi, sempre più di frequente, il termine “dipendenza” viene utilizzato con riferimento a sintomatologie derivanti dalla ripetizione di attività per lo più socialmente accettate, che non implicano l’assunzione di alcuna sostanza chimica. Nelle nuove dipendenze l’oggetto in discussione è, quindi, un comportamento ripetitivo e compulsivo che non implica, nella maggior parte dei casi, un’attività illecita. Non c’è nessuna sostanza, nessuna schiavitù del corpo. Nessuna tolleranza o astinenza spiegabile con molecole psicoattive che “ammalano il corpo”.

Da ciò si evince come la tossicodipendenza sia “soltanto” una delle possibili espressioni di una sindrome di dipendenza. Tale sindrome, in tutte le sue forme, è caratterizzata dall’impossibilità di frenare l’attuazione del comportamento, sottolineandone l’aspetto compulsivo. Si manifesta con un crescendo di tensione ed eccitamento che precede l’inizio del comportamento, una sensazione di piacere e sollievo durante lo svolgimento del comportamento e una conseguente percezione di perdita di controllo con coazione a ripetere del comportamento, nonostante la consapevolezza dell’insorgere di conseguenze negative. Le più conosciute Nuove Dipendenze sono la sindrome da shopping compulsivo, la dipendenza da internet(dipendenza da sesso virtuale, chat dipendenza, abuso di casinò virtuali, commercio elettronico, trading on line, partecipazione ad aste on line, dipendenza  dai giochi virtuali o di ruolo – ), le dipendenze relazionali, i disturbi alimentari ed il gioco d’azzardo patologico (GAP).

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Ciò che è curioso è la decisione di considerare questi aspetti come “malattie”, in riferimento alle ultime prese di posizione da parte del Ministero della Salute. Come si può parlare di patologia. Le malattie hanno una causa, una cura i cui effetti sono indubbiamente efficaci. Quello che pensiamo invece è che le variabili socioculturali e psicologiche giochino un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa sintomatologia e che queste varino da persona a persona, rendendo inutile l’impiego di protocolli standardizzati come vengono effettuati nei “Servizi per Tossicodipendenti”, come “normalmente si fa” per ogni malattia, per cui a sintomo rispondo con la cura. Questo tipo di impostazione, a mio avviso, non risolve. L’approccio non dovrebbe concentrarsi sul comportamento “deviante” ma sulle motivazioni in gioco, che sono diverse per ognuno.

Inoltre trovo curioso che da un lato si consideri il gioco compulsivo una dipendenza, una patologia, e dall’altro lo si incentivi in continuazione con pubblicità “a catena” e nobili testimonial. A che “gioco state giocando”?

4 Risposte a “Le nuove dipendenze”

  1. Caso esemplare di quanto scrivi è il programma su real time “io e la mia ossessione”. Al di là delle considerazioni sullo stesso, la reazione dei medici è sempre quella di sottolineare la dannosità fisica del comportamento ossessivo invece di concentrarsi sull’evidente disturbo psichico e, dunque, di sottoporre i pazienti a trattamenti adeguati.

    1. Siamo veramente sulla stessa lunghezza d’onda. Un esempio calzante rispetto al ragionamento fatto.
      La medicalizzazione della psicologia, l’idea che esista un protocollo unico, ad hoc, per ogni individuo con un sintomo specifico, tralasciando le differenze individuali e contestuali che ogni problema porta con se, è il principale pericolo per l’identità della nostra disciplina.

      Saluti

  2. I così detti protocolli non sono validi nemmeno nelle cure oncologiche, per esempio. La loro funzione è autoreferenziale. Detto questo, e parlando del gioco, va riconosciuto un comportamento autocoattivo, nel soggetto. Dove, il dialogo interiore, quando non è assente, viene bruscamente interrotto da un gesto di reale scommessa. Un vero e proprio acting out, che cancella ogni ricerca di dialogo. Un gesto di richiamo alla tradizione della caccia, fornito dalla civiltà, e dal suo disagio. Un gioco di reciproca dipendenza, allora, tra civiltà (Stato) e giocatore. La terapia punterà allora sull’ascolto, ma anche sulla demistificazione della grande caccia, proposta come mito. Ma chissà cosa ne penserebbero, e ne hanno pensato, Dostoevskij o Landolfi o altri ancora. Scusate il mio iontervento, ma il tema è comunque affascinante.
    Roberto de pas

    1. Concordo con te Roberto,
      la dipendenza è il rifiuto del pensiero. Sebbene non ami le generalizzazioni e quindi i protocolli standard e autoriferiti, l’azione ripetitiva impedisce la riflessione, saturando la mente con se stessa.
      Sono, credo, interessanti anche le implicazioni sociali del gioco; nella perdita delle speranze di una crescita economica, non ci rimanere che grattare cartoncini o premere tasti, per sperare in un cambiamento.

      Saluti

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