Lavoro in rete. Con la persona o sulla persona?

Ho preso spunto per questo post dall’incontro, a cui ieri ho partecipato, organizzato dalla Caritas di Siena e dal suo dirigente Giovanni Tondo, nel quale si sono confrontati operatori Caritas della provincia con la figura dell’Assistente Sociale. L’oggetto del dialogo verteva intorno alla presentazione del ruolo che l’Assistente Sociale svolge all’interno dei Servizi Socio-Assistenziali ed all’importanza del “Lavoro in Rete” per la progettazione di interventi terapeutici mirati ed efficaci. L’uso della rete come strumento riabilitativo è attualmente un must, all’interno dei Servizi, sia per la sua efficacia sia per la necessità che l’Azienda Sanitaria ha di utilizzare risorse “altre” oltre se stessa, al fine di proporre un intervento efficiente. Infatti non è una novità parlare della scarsità di risorse economiche e di personale qualificato (psicologi, educatori, assistenti sociali, psichiatri, infermieri, operatori, ecc.) di cui l’ambito sanitario dispone attualmente. Ieri in particolare, è stata sottolineata l’importanza di attivare quella che Croce (in “Il lavoro di rete fra tecnica e partecipazione“, 1995) chiama rete egocentrata; essa fa riferimento all’insieme delle relazioni in cui la persona è inserita, il “pezzo di comunità” con cui l’individuo è direttamente in contatto. Progetti che utilizzano questo potente strumento hanno come obiettivo il cambiamento di situazioni problematiche attraverso l’apertura relazionale, la solidarietà, il potenziamento delle relazioni sociali di aiuto.

Ciò che è stato sottolineato a più riprese è che un lavoro efficace è possibile solo se gli operatori coinvolti lavorano con la persona e non sulla persona. Questo significa che l’individuo, con le sue peculiarità, i suoi bisogni e le sue problematiche deve essere il cardine dell’intervento; il punto di partenza e lo strumento di verifica dello stesso. Il problema è fondamentale e cogente. La mia esperienza pluriennale di lavoro a contatto con i Servizi, all’interno dell’equipe di lavoro multiprofessionali, mi insegna che le persone sono spesso invisibili dentro i progetti che li riguardano, i quali consistono spesso in procedure standard, elaborate su problemi generici spesso inconciliabili con le peculiarità del singolo. Non è infatti infrequente, credo che i vari operatori possano confermarlo senza problemi, che le prime “resistenze” all’attuazione dei programmi riabilitativi provengono dagli utenti stessi che dovrebbero usufruirne. Il lavoro in rete viene spesso percepito come una gabbia, un qualcosa “calato dall’alto”, nel quale il soggetto finisce con il rimanerne immobilizzato, cronicizzando la sua permanenza all’interno del Servizio.

La professionalità psicologica, a mio avviso, può fare molto affinché l’utente riacquisti la sua centralità, affinché inizi ad essere pensato non soltanto come un individuo “mancante di qualcosa”, che un intervento può riaggiustare ma come una persona con risorse e potenzialità da sfruttare. Solo a questo punto potremmo davvero lavorare con la persona.